La peste suina arrivata dall’Africa avanza. A lanciare l’allarme è Slow Food preoccupata per quanto sta accadendo già dal settembre dello scorso anno, quando insieme ad altre associazioni aveva avanzato specifiche proposte per contrastare questo fenomeno che però sono rimaste lettera morta.
A due anni e mezzo dal primo caso di cinghiale infetto accertato in provincia di Alessandria, il virus è arrivato in otto regioni e, soprattutto, è entrato prepotentemente negli allevamenti di suini. I danni sono già enormi e la situazione è sul punto di degenerare, sia dal punto di vista sanitario, sia da quello economico.
Negli ultimi mesi, circa cinquantamila maiali sono stati abbattuti nel nostro Paese e le loro carni distrutte. Le norme prevedono infatti che, in caso di positività, si abbattano tutti i capi presenti entro un raggio di tre chilometri. I grandi allevatori vengono risarciti, mentre ai piccoli i risarcimenti arrivano con il contagocce: parliamo in ogni caso di decine di milioni di euro di risorse pubbliche.
Il modello industriale non funziona, anzi peggiora la situazione
La strategia adottata per frenare la diffusione del virus finora non ha prodotto alcun risultato e il commissario straordinario alla peste suina africana, Vincenzo Caputo, entrato in carica un anno e mezzo fa, si è dimesso. Nei giorni scorsi, è arrivata anche la bocciatura da parte dei commissari europei giunti in missione in Italia per valutare la situazione.
Sotto il profilo della biosicurezza, non si può sorvolare sul fatto che i casi di peste suina africana si sono verificati negli allevamenti industriali italiani, ovvero in quelli che – sulla carta – dovrebbero essere i luoghi maggiormente al riparo dal contagio, nei quali gli animali vivono rinchiusi, senza possibilità di contatti diretti con i cinghiali. Questa apparente contraddizione si spiega con la movimentazione di mezzi, animali e personale tra un allevamento e l’altro, una circostanza che riguarda soprattutto i grandi allevamenti con migliaia di capi. In altre parole: è l’uomo ad aver portato il virus negli allevamenti. Tenerlo a mente è fondamentale per evitare di peggiorare la situazione.
Parlare di biosicurezza per frenare la diffusione della peste suina africana è sacrosanto, ma occorre farlo nel modo corretto: intenderla solo come barriere e recinzioni da innalzare per separare i suini domestici dai selvatici è riduttivo e penalizza chi non alleva in maniera industriale. Biosicurezza significa anche rispettare rigorosamente le norme per evitare di trasportare in modo accidentale il virus all’interno dei capannoni.
Che questo non sia accaduto lo ha ammesso lo stesso commissario Caputo, in una intervista rilasciata dopo aver annunciato le dimissioni: “Abbiamo avuto la peste a Reggio Calabria e l’abbiamo avuta a Pavia: non credo che sia dovuto alla presenza del cinghiale” ha detto, sottolineando che “per ridurre il rischio l’uomo deve stare attento a non portare il virus sotto i piedi fino dentro l’allevamento”.
Occorre tener presente che i grandi allevamenti industriali, di norma, si trovano all’interno dei cosiddetti distretti suinicoli, cioè aree geograficamente ristrette ad altissima densità di capi. In queste realtà, le occasioni di contatto tra un allevamento e l’altro sono molto frequenti: pensate ai camion che riforniscono di mangime i grandi capannoni (negli allevamenti piccoli, invece, spesso i mangimi sono autoprodotti) e a quelli che smaltiscono i liquami; oppure al personale che si sposta da un allevamento all’altro, compresi i veterinari e le persone che si occupano del carico degli animali verso il macello.
Oppure, ancora, pensate ai grandi allevamenti da riproduzione, dove si producono i suinetti destinati all’ingrasso in altri allevamenti: un caso positivo in una realtà così strettamente interconnessa a molte altre può avere conseguenze disastrose in aree anche molto distanti l’una dall’altra.
Gli allevamenti di piccola scala, quelli dove gli animali vivono allo stato brado o semibrado, spesso sono invece isolati, lontani gli uni dagli altri, caratterizzati dal cosiddetto ciclo chiuso (cioè con la riproduzione dei suinetti all’interno dell’allevamento), con pochissimi contatti con l’esterno: di conseguenza, le probabilità che il virus venga portato dall’uomo all’interno sono minori. Il rischio che il contagio si verifichi attraverso un contatto con il selvatico c’è, ma un’eventuale positività avrebbe conseguenze decisamente ridotte e sarebbe più facilmente isolabile.
Il fallimento della cabina di regia
Slow Food Italia, insieme a FederBio, Aiab Liguria, Veterinari Senza Frontiere e Associazione Rurale Italiana, a settembre 2023 ha preso parte alla cabina di regia nazionale per la peste suina africana, su invito del commissario Caputo, con l’obiettivo di rappresentare le istanze degli allevatori di piccola scala.
A quel tavolo Slow Food Italia, con le altre associazioni coinvolte in rappresentanza degli allevamenti biologici, bradi e semibradi, ha portato proposte concrete e avanzato diverse richieste. Ad esempio:
ha chiesto azioni di informazione e formazione per la popolazione, gli enti locali e gli operatori riguardo alla gravità della malattia e alle azioni virtuose da intraprendere per evitarne la diffusione;
ha invitato le autorità incaricate della gestione della peste suina a pubblicare linee guida tecniche volte a uniformare le valutazioni e le indicazioni delle singole Asl/Ats, evitando di valutare diversamente a seconda delle aree l’idoneità delle misure di biosicurezza adottate negli allevamenti semibradi e a bassa capacità, cioè con meno di 300 capi;
ha proposto la deroga allo svuotamento degli allevamenti laddove sia rispettato il prerequisito della biosicurezza, una misura indispensabile per chi alleva razze a rischio d’estinzione;
ha proposto risarcimenti più equi, evitando che le quotazioni più alte vengano riconosciute soltanto agli allevamenti inseriti nel circuito delle Dop, trascurando chi alleva ad esempio in biologico;
ha sollecitato la realizzazione di macelli di piccole dimensioni più diffusi sul territorio, che consentirebbero di ridurre gli spostamenti e la promiscuità di animali e mezzi con origini e destinazioni diverse.
“Queste proposte sono però rimaste senza risposta. Il tavolo, dopo un incontro online a dicembre 2023, non è più stato convocato e non è più stato richiesto il parere di chi rappresenta il settore biologico e l’allevamento estensivo e di piccola scala. Anche le richieste di aggiornamenti e di spiegazioni sono rimaste inevase. ” Ha dichiarato Slow Food
“Torniamo dunque a rivolgerci ai ministeri della Salute e dell’Agricoltura: perché la cabina di regia è naufragata? Quale linea sarà intrapresa a questo punto per contrastare questa emergenza? Davvero si intende continuare a privilegiare un modello di allevamento industriale che, oltre a vedere negli animali dei meri mezzi di produzione, ha dimostrato la propria vulnerabilità all’avanzata della peste suina africana?” Prosegue la nota di Slow Food
“Insistere su questa strada non è privo di conseguenze e a farne le spese sono gli allevatori più piccoli: quelli che lavorano in modo estensivo, valorizzando razze suine autoctone – che sono alla base di produzioni storiche della norcineria italiana eppure si trovano a rischio d’estinzione – e salvaguardando il loro prezioso patrimonio genetico.“