E’ impietosa l’immagine che l’ISTAT da dell’Italia nel rapporto annuale presentato ieri.
Nonostante alcuni segnali di timida positività, relativamente al recupero del livello del PIL al periodo pre Covid, (che di per se non era splendido ndr) il resto non sembra andare come dovrebbe.
Una fotografia in bianco e nero, quindi, al di la dei proclami del Governo, della Presidente del Consiglio, degli opinionisti che cercano di dipingere la situazione italiana come in ripresa.
Ci ha pensato l’ISTAT a risvegliare lor signori da questo sogno.
Il potere d’acquisto dei salari lordi in Italia è crollato del 4,5% negli ultimi 10 anni e non ci sono segnali di ripresa. Si legge infatti nel rapporto dell’Istituto di Statistica.
“Nonostante i miglioramenti osservati sul mercato del lavoro negli ultimi anni, l’Italia conserva una quota molto elevata di occupati in condizioni di vulnerabilità economica. Tra il 2013 e il 2023 il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde in Italia è diminuito del 4,5% mentre nelle altre maggiori economie dell’Ue27 è cresciuto a tassi compresi tra l’1,1% della Francia e il 5,7% della Germania.”
Nel triennio 2021-2023, sottolinea l’ISTAT, “le retribuzioni contrattuali orarie sono cresciute a un ritmo decisamente inferiore a quello osservato per i prezzi, con una differenza particolarmente marcata nel 2022 (7,6 punti percentuali): tra gennaio 2021 e dicembre 2023 i prezzi al consumo sono complessivamente aumentati del 17,3%, mentre le retribuzioni contrattuali sono cresciute del 4,7%”.
Questo per effetto dell’inflazione e delle politiche economiche dell’Europa, delle guerre che stanno contribuendo a rendere questo scenario difficile da modificare.
L’inflazione, quindi, ha superato il reddito medio di 2 punti percentuali in Spagna e di 4,3 punti percentuali in Italia. Ma per il Governo ci sono segnali di ripresa. Contenti loro.
A pagare di più questa situazione è la fascia di popolazione più debole. “L’inflazione ha avuto effetti differenziati sulle imprese e, in particolare, sulle famiglie – con le retribuzioni che non hanno tenuto il passo dell’inflazione – riducendo il potere di acquisto soprattutto delle fasce di popolazione meno abbienti.” afferma l’ISTAT.
Questo ha prodotto uno scenario a dir poco preoccupante. Nel 2023 infatti, la crescita della povertà, ha raggiunto “livelli mai toccati negli ultimi dieci anni”.
E cosa sta facendo il Governo per arginare questa deriva? Praticamente nulla.
Le famiglie più povere sono esposte in modo sproporzionato al cibo (+17% su base annua) e alle utenze (affitti, acqua, luce) che hanno registrato un aumento del 9%.
In sostanza il progressivo aumento del tasso di inflazione sta ponendo un pesante problema redistributivo che ora anche l’Istat certifica in maniera impietosa.
L’aumento dei prezzi di questi ultimi anni, trainato dal rincaro dei beni energetici, è più accentuato per le famiglie a basso reddito e quindi la cosiddetta «tassa dell’inflazione» colpisce dove è le situazioni sono più complicate.
E mentre c’è chi, nel Governo, esulta per i dati sull’occupazione, il dato inflattivo colpisce proprio i lavoratori dipendenti. Secondo il rapporto Istat in Italia i nuovi poveri sono proprio i lavoratori dipendenti, con una ‘”convergenza territoriale tra le ripartizioni, ma verso una situazione di peggioramento”.
“Con i livelli di povertà assoluta presenti nel Centro Italia che si stanno avvicinando sempre di più a quelli del Sud. Tra i più esposti ci sono i giovani, le donne e gli stranieri, e tutti quei lavoratori che si ritrovano a percepire stipendi troppo bassi a causa della “diffusione di tipologie contrattuali meno tutelate e a bassa intensità lavorativa”.
In sostanza sono coinvolte 2 milioni 235 mila famiglie e 5 milioni 752 mila individui anche per la fine del reddito di cittadinanza. “Nonostante i miglioramenti osservati sul mercato del lavoro negli ultimi anni, – dice l’ISTAT – nel nostro Paese una parte ancora molto elevata di occupati versa in condizioni di vulnerabilità economica.”
“L’incremento di povertà assoluta ha riguardato principalmente le fasce di popolazione in età lavorativa e i loro figli. Il reddito da lavoro, in particolare quello da lavoro dipendente, ha visto affievolirsi la sua capacità di proteggere individui e famiglie dal disagio economico”.
Questo significa che il lavoro che si sta creando è un lavoro povero, sottopagato, fatto di part-time imposto e non richiesto, di salari non completamente dichiarati. E mentre imperversa in Italia la discussione sul salario minimo tra 8 euro a 10 euro l’ora in Germania si sta pensando di portare il salario minimo a 15 euro l’ora.
Cosa resta da fare, oltre che pregare per chi è credente? Serve una nuova politica di investimenti e un vero patto per il lavoro, che metta al centro dell’azione politica l’uomo e le sue risorse e non il profitto a tutti i costi.
Riusciranno mai a capirlo ministri e parlamentari che non hanno mai fatto un solo giorno di lavoro in vita loro?