Di Giulia Siracusa
È passata ormai quasi una settimana dalla scintillante notte degli Oscar che quest’anno ha visto trionfare Christopher Nolan e il suo Oppenheimer.
Tuttavia, non è sempre la pellicola che vince la statuetta più ambita della sera ad essere il film più bello dell’anno e la cerimonia di quest’anno ne è la riprova.
Il lungometraggio sul padre della bomba atomica, nonostante la bellezza tecnica, perde sul lato della trama e nella caratterizzazione dei personaggi (soprattutto quelli femminili) diventando, nella seconda parte del film, ostico e andando a trattare fatti e personaggi sconosciuti ai più.
Appurato questo, complimenti a Nolan e a Cillian Murphy ma il più interessante dell’anno è un altro.
The Zone of Interest scritto e diretto da Jonathan Glazer, stupisce lo spettatore fin dai primi secondi, costringendo chi lo guarda a fissare lo schermo nero che introduce il primo atto del film.
Come risaputo, il film di Jonathan Glazer parla del comandante a capo di Auschwitz, Rudolf Höss, e della sua famiglia che fin dalla seconda metà degli anni trenta del Novecento vivono praticamente dentro il campo, o meglio, nel giardino sul retro.
Il film è caratterizzato da una fotografia asciutta, che emula quasi le luci fisse e accecanti delle sale operatorie. Nessuna luce è ricreata artificialmente, Glazer ha voluto specificare che quella che vediamo è la vera luce del sole o il buio della notte.
Possiamo dire, infatti, che lo sguardo del regista può ricordare quello di un chirurgo che osserva e disseziona il suo paziente sul tavolo operatorio, senza stupirsi di quello che vi può trovare andando in profondità.
Il distacco con cui Glazer ci riporta i fatti è spaventoso, ma rende benissimo l’idea di come i gerarchi tedeschi e chi come loro si votò alla missione di Hitler vivessero le loro vite e svolgessero i loro compiti.
Tutti i protagonisti della vicenda erano convinti che quello che stavano facendo sarebbe stata la loro vita per sempre, per questo una delle scene più raccapriccianti di tutto il film è quella che vede la moglie di Höss, Hedwig, passeggiare con sua madre nel giardino da lei curato.
Tutto di questa sequenza è grottesco: dal momento in cui le due donne ipotizzano che una loro ex vicina di casa possa trovarsi dall’altra parte del muro o che possa essere potenzialmente morta o quando la madre di Hedwig si dispiace che oltre il muro si veda il campo e la padrona di casa la tranquillizza affermando che tra qualche anno le viti cresceranno e copriranno la visuale.
The Zone of Interest ci fornisce un nuovo modo di fare film sul dramma che è stato la Shoah.
Una delle novità più spiazzanti è che noi spettatori non vediamo mai cosa succede dentro al campo di concentramento, non andiamo mai oltre il muro che divide il giardino di casa Höss e Auschwitz; d’altro canto ne sentiamo costantemente i rumori: urla disperate, pianti, ordini impartiti in tedesco e soprattutto spari sono la colonna sonora che ci accompagna durante la quasi totalità del film.
Pochissimi sono anche gli ebrei deportati che vengono visti durante la durata del film mettendo in atto un cambiamento di focus senza precedenti nella storia dei film sulla Shoah.
Mai come in questo film si capisce il livello di deumanizzazione a cui si era arrivati nella Germania Nazista.
In generale quello che vediamo rappresentato sullo schermo è l’apoteosi del male e la sua, ormai ampiamente teorizzata, banalità. Non si vede mai la violenza, ma la si può comunque percepire in ogni frame della pellicola.
La domanda ricorrente che mi sono posta mentre guardavo il film era come fosse stato possibile per delle persone, all’apparenza normali con dei sogni anche banali come il crescere la propria famiglia in campagna e avere un pezzo di terra di proprietà da coltivare, arrivare a trattare degli altri esseri umani come dei pezzi di un puzzle più grande, come delle unità (citando il film).
Il film non lascia spazio alla speranza e non fa vedere la fine a cui è destinata la famiglia Höss e la loro casa perfetta; tuttavia ci concede un piccolo viaggio nel tempo.
Sul finale Rudolph Höss scende simbolicamente una scalinata che progressivamente viene avvolta dal buio, poco prima di scendere l’ultima fatidica rampa il comandante guarda fisso in camera per venire catapultati – e noi spettatori con lui – ad Auschwitz.
Quello che vediamo però è il campo oggi nella sua funzione di memoriale delle vittime e museo dell’apoteosi del male se non ché quello che Glazer ci mostra non sono i visitatori che, commossi, si aggirano per il campo ma la ditta di pulizie e lo staff del campo che come ogni giorno svolgono il loro lavoro senza battere ciglio, abituati ormai a muoversi in un luogo che poco meno di cento anni fa è stato teatro di orrori ancora adesso ineguagliati.
Forse è proprio questo il messaggio che il regista vuole lasciarci: ogni giorno veniamo bombardati da immagini e notizie legate alla violenza, alla guerra facendoci dimenticare che quelle persone che vediamo nei video che popolano i social sono vere e che fino a pochi giorni o mesi fa vivevano una vita simile alla nostra ma che potenzialmente adesso sono morte o combattono per la sopravvivenza.
Noi, che abbiamo avuto il privilegio di essere nati dalla parte fortunata del mondo, guardiamo queste notizie passivamente, dimenticandocene poco dopo, passando alla prossima storia che catturerà la nostra attenzione.
Forse il motivo per cui il film ti entra dentro e ti strazia l’anima è legato al nostro senso di colpa e alla consapevolezza intrinseca che noi, tutto sommato, non siamo così diversi dalla famiglia Höss e che prima o poi le viti cresceranno e ci impediranno di vedere quello che succede al di là del muro, permettendoci il lusso poter dimenticare senza dover venire a patti con la realtà del mondo.